Praticità e spontaneità dell’Iperfocale.

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Sfogliando un volume di fotografie, quale possa essere uno di Yosef Koudelka, Lee Friedlander o Alex Webb, si può avere riprova dell’uso sagace che tali fotografi facevano di uno dei due maggiori elementi tecnici della fotografia stessa: l’apertura focale e l’effetto che ha sulla profondità di campo.

Per quanto io stesso non finisca mai di rimanere affascinato dal capace utilizzo di una ridotta profondità di campo per isolare il soggetto ritratto, ogni situazione necessita di un’attenta valutazione in merito a quali parametri tecnici maggiormente arricchiscano il risultato finale. La presenza di più elementi a fuoco predispone l’osservatore a interpretare la spazialità con la chiave del formato bidimensionale su cui si trova, permettendo all’immaginazione di espandere le dimensioni oltre i confini tipici del mondo reale: il soggetto si immerge nello sfondo, incastonandovici ed arricchendolo; l’occhio non si fa ingannare, ma la prospettiva diventa secondaria alla funzione narrativa di ciò che viene ritratto.

© Photography by John Upton
Fig.1 – © “Photography” di John Upton: all’aumentare dell’apertura focale, diminuisce la profondità di campo. Questo esempio mostra anche come, ad ISO (i.e. sensibilità del medium fotografico) costante, il variare dell’apertura focale è inversamente proporzionale alla durata del tempo di scatto: in questo esempio la prima fotografia è del tutto a fuoco negli elementi non in movimento (e.g. la pavimentazione), mentre i volatili non sono nitidi in quanto si sono mossi durante la prolungata durata dello scatto; nel terzo esempio invece lo scatto era più veloce per cui i volatili sono a fuoco, mentre lo sfondo non lo è, in quanto la profondità di campo è ridotta dalla grande apertura focale.

Dal punto di vista tecnico, all’aumento dell’apertura focale corrisponde una riduzione della profondità di campo (Fig.1): nel momento in cui l’apertura focale è al suo massimo, entra più luce possibile, ma con inclinazioni molto differenti per cui risulta nitido solo ciò che si trova vicino al piano di fuoco ottico; qualora si riduca l’apertura invece, gli angoli di ingresso della luce sono più simili fra i diversi piani di profondità, per cui si estende la profondità del campo di fuoco (Fig.2).

http://coinimaging.com/dof_aperture.html
Fig.2 – © Coinimaging: Al diminuire dell’apertura, aumenta la profondità di campo (i.e. Depth Of Field – DOF), solitamente distribuita in 1/3 fra obiettivo e piano ottico, e 2/3 fra piano ottico ed infinito ottico.

Dal punto di visto della praticità e della spontaneità nella fase produttiva, una maggior profondità di campo permette di non doversi concentrare sulla messa a fuoco del soggetto. Il processo diviene più fluido e istintivo – attento agli aspetti artistici che influenzano il risultato finale, quali composizione, lettura della distribuzione della luce e ascolto emotivo di ciò che si vede attraverso l’obiettivo, e che si spera rimanga impresso nella pellicola e nell’osservatore allo stesso modo.

Impostata una determinata apertura focale – ed affidatisi ad una ISO costante e ad una modalità semi-automatica che regoli la velocità di scatto di conseguenza – ci si può volontariamente dimenticare di qualsiasi aspetto tecnico e concentrarsi sulla propria voce.

Si pone come esempio l’obiettivo nella Fig.3, il quale, ad apertura focale ƒ/16, permette di mettere a fuoco allo stesso tempo da una distanza di circa 0.6m fino all’infinito ottico: dunque il processo fotografico può regredire ad uno stadio di innocenza conoscitiva riguardo agli aspetti tecnici che si avvalgono comunque di un’importanza meritata, ma che nella loro assenza permettono di scattare liberamente senza restrizioni, se non il fatto di non avvicinarsi a meno di 0.6m da uno dei soggetti ritratti.

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Fig.3 – Il riquadra mostra l’estensione dell’iperfocale ad apertura ƒ/16 per l’obiettivo Leitz 21mm ƒ/4: da 0.5m a 5m.

La scelta di utilizzare una maggiore profondità di campo non si limita alle sole finalità pratiche e alla spontaneità espressiva, ma si asservisce a tale espressione. In contrasto all’isolamento che spesso viene utilizzato nella ritrattistica – in cui si vuole che il soggetto sia visivamente di una consistenza diversa da quello che, dunque, non lo circonda davvero – la fotografia di strada ed il reportage fotografico “non ammettono” elementi fuori fuoco, in quanto tutto ciò a cui viene concesso di essere nell’inquadratura è atto a sorreggere il contenuto della fotografia stessa.

© Josef Koudelka
Fig.4 – © Josef Koudelka

Josef Koudelka è noto soprattutto per due libri: Gitans/Gypsies ed Exiles. Entrambi sono stati frutto di un lavoro che si è prolungato negli anni, caratterizzati da una dedizione maniacale da parte del fotografo che, pur di fotografare la Cecoslovacchia in cui era nato, ha speso ogni sua energia per vivere con i soggetti dei suoi progetti fotografici, arrivando a trascorrere giorni lieti per più di dieci anni nei campi Rom e a dormire più volte nell’ufficio di Magnum Photos.

Gli scatti di Koudelka utilizzano l’ampia profondità di campo per creare contesto intorno al soggetto ritratto, laddove il contesto ha valenza di sentimento e vicinanza (Fig.4): in assenza di ciò che li circonda, l’uomo non sarebbe così solo, la mano non sarebbe parte della storia di Praga ed i ragazzini apparirebbero troppo dominanti per non essere ridicoli.

© Lee Friedlander
Fig.5 – © Lee Friedlander

Lee Friedlander è altrettanto noto per la sua dedizione senza orari, sfogata attraverso viaggi continui per il territorio statunitense ed attraverso sperimentazioni costanti. Vive l’America sulla sua pelle e sulla pellicola dagli anni ’50 fino a oggi, fotografandone le persone ed i luoghi.

Il suo uso della profondità di campo si fonda sulla creazione di un contesto che funge da arricchimento della fotografia e della realtà che ritrae, senza il quale un cartello stradale non può avvalersi dell’ubiquità su molteplici livelli dimensionali e senza il quale Friedlander stesso non può immergersi in una delle tante realtà meno raccontate, accennando anche a come l’America volti le spalle metaforicamente a tali realtà – per chi apprezzi determinate interpretazioni (Fig.5).

© Alex Webb
Fig.6 – © Alex Webb

Martin Parr si differenzia principalmente per l’uso della profondità di campo al fine di disporre su molteplici livelli più soggetti, invece di creare contesto per il soggetto principale. Per quanto vi siano soluzioni intermedie, Parr è estremo al riguardo e tenta sempre di essere equo nei riguardi dei suoi soggetti: non vi è alcuna predominanza fra loro, in quanto la dimensione spaziale sul risultato finale viene sovvertita dal contesto localizzato intorno ai vari soggetti (Fig.6). Quello che appare come un esercizio di stile è anche espressione dell’interpretazione della fotografia come racconto.

Per quanto Koudelka raccontasse la storia della Cecoslovacchia e delle sue genti, e Friedlander raccontasse la sua vita nell’America, Parr è un cantastorie e narra ciò che l’osservatore ha modo di vedere nelle sue fotografie.

Questi aspetti sono presenti negli scatti degli altri fotografi, solo che, per fini analitici, vi è maggiore enfasi su quelli che sono più preponderanti nella produzione di ciascuno dei sopra-citati fotografi: Koudelka, Friedlander e Parr sono esempi di tantissimi fotografi che hanno voluto dare voce a sé stessi ed a chi aveva modo di vedere le loro immagini. L’iperfocale è un semplice trucco che può rendere più semplice ed istantanea una pratica che – come qualunque tipo di produzione artistica – ha l’encomiabile dono di rendere tattile l’intangibile e astratto il peso della concretezza. La fotografia non svetta fra le arti, né si taccia di essere un mezzo storiografico. Essa è ciò che può intonare una voce, darle profondità, contesto e forma.

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