Ritratti: isolamento del soggetto e contesto.

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La pratica della fotografia ritrattistica si fonda sull’enunciazione del soggetto fotografico in quanto oggetto accentrante, a cui l’attenzione dell’osservatore si concede completamente.
L’immagine delle persona impressa sulla fotografia diviene bidimensionale e si immerge nello sfondo che la circonda. La si può definire univoca ed equivoca nell’atemporalità che la rende strumento storiografico e di finzione: ciò che è su carta potrebbe essere vero o manipolato, ma in entrambi i casi mantiene il valore datogli dai canoni estetici e dall’istinto emotivo dell’osservatore.
Che la persona sia in posa o ritratta nella sua spontaneità, non si può dire che non rappresenti una differenza, ma tale discernimento non è sostanziale. L’immagine di una persona che sorrida, pianga, mostri disrispetto o sorpresa è espressione di una storia a cui si dà ascolto senza distinzione a priori.
Gli approcci possibili sono innumerevoli, ma quasi sempre sono basati sul rapporto che vi è, o che viene ricercato ed imposto, fra soggetto ritratto e sfondo. Quest’ultimo può variare radicalmente nella sua forma e nella sua presenza di contesto o astrazione generalizzante (i.e. uno sfondo monocromatico, modulare o sfocato), sempre però al fine di isolare il soggetto ritratto.

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Praticità e spontaneità dell’Iperfocale.

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Sfogliando un volume di fotografie, quale possa essere uno di Yosef Koudelka, Lee Friedlander o Alex Webb, si può avere riprova dell’uso sagace che tali fotografi facevano di uno dei due maggiori elementi tecnici della fotografia stessa: l’apertura focale e l’effetto che ha sulla profondità di campo.

Per quanto io stesso non finisca mai di rimanere affascinato dal capace utilizzo di una ridotta profondità di campo per isolare il soggetto ritratto, ogni situazione necessita di un’attenta valutazione in merito a quali parametri tecnici maggiormente arricchiscano il risultato finale. La presenza di più elementi a fuoco predispone l’osservatore a interpretare la spazialità con la chiave del formato bidimensionale su cui si trova, permettendo all’immaginazione di espandere le dimensioni oltre i confini tipici del mondo reale: il soggetto si immerge nello sfondo, incastonandovici ed arricchendolo; l’occhio non si fa ingannare, ma la prospettiva diventa secondaria alla funzione narrativa di ciò che viene ritratto.

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Passaggio.

In seguito a molteplici anni in cui ho fatto convivere la produzione fotografica digitale con quella analogica, durante il mese di settembre 2014 ho deciso di dare forma ad una voce univoca. Non tanto perché sazio di un dato elemento intrinseco della più moderna delle due pratiche, né per un moto di antagonismo e ribellione contro quell’innovatività che inarrestabile non è, ma che segue il decorso naturale della progressione umana e che per tale ragione non deve essere condannata; ho preso tale decisione perché ho guardato alle mie spalle e, certo di trovarvi le mie orme, ho visto perlopiù fotografie che non avevano modo di entusiasmarmi. Se non erano in grado di suscitare alcun moto d’animo in me – per quanto dedito all’auto-critica, pur sempre loro predatore e naturalmente afflitto da una sana immodestia – non vi è modo di credere che possano avere valore alcuno.

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Mario Farina: street photographer in Bardolino.

Nell’arco di un mese dell’inverno 2013-2014 ho ritrovato per casa parti complementari di un cammino artistico, intrapreso dal mio bisnonno, Mario Farina, ed a me ignoto.

In prima istanza una scatola, la quale perlopiù conteneva fotografie scattate durante i fine-settimana trascorsi dal mio bisnonno presso Bardolino, luogo tipicamente “ameno” in cui soleva andare a perdere lucidità con l’aiuto del vino. Apparentemente era sua abitudine recarvisi portando con sé una Rollei 35 che gli era stata regalata dal figlio, il mio pro-zio. Questa stessa macchina è stata il mio secondo ritrovamento e, fortunatamente funzionante, ora si trova spesso nelle mie tasche, nella speranza che possa gradualmente abituarmi a non tralasciare determinati possibili scatti, che mi si presentano, ma che non vengono immortalati per accidia e per un’errata impostazione comportamentale; pur senza divenire un’ossessione, essendo la macchina estremamente tascabile.

Quella che in un primo momento fu una semplice divisione e differenziazione fra le fotografie che mi parevano interessanti e quelle che non lo erano, divenne in seguito un graduale processo di selezione, la cui finalità distensiva era mediata dalla ritualità con cui le foto si ripetevano in ordine sempre simile sotto le mie mani.

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L’EQUILIBRIO NELLA FOTOGRAFIA.

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Nelle poche occasioni in cui mi confronto con altre persone sul rapporto che ciascuno di noi ha con la fotografia, io mi scopro ogni volta essere saldamente ancorato all’associazione di tale mezzo espressivo agli esseri viventi. Per quanto la scelta dei possibili soggetti fotografici sia ampia, solitamente prediligo ritrarre situazioni in cui vi sia un elemento umano. Vengo poco attratto dai miei scatti in cui ve n’è carenza, ma non disprezzo quelli di altre persone che si allontanano da questa mia concezione della fotografia; posso anche esserne molto attratto. La macro-fotografia, così come quella astratta, quella panoramica e i molti altri tipi, è affascinante, ma non si confà alla mia indole: posso apprezzarla, ma non ne produco.

Ultimamente ho letto delle frasi che avevo evidenziato nel libro ‘Sulla Fotografia’ di Susan Sontag e una in particolare si è distinta fra le tante, in quanto affine a questa mia riflessione.

© Peter Hujar

Fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può mai avere; equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto.

Susan Sontag – Sulla fotografia [Piccola Biblioteca Einaudi]

Questa risuona come una sentenza e ne ha anche l’accezione, fosse anche solo per la scelta drammatica, e forse teatrale, dell’autrice, di utilizzare le parole violarla e posseduto. Non sono loro, però, ad affascinarmi, ma il fatto che condivido molto fortemente il sentore che una persona, in fotografia, posso essere conosciuta dall’autore della fotografia oltre il limite delle normali interazioni umane. La figura, una volta ritratta, viene influenzata dalla fantasia e dall’ottica di chi la osserva, e si eleva a oggetto di interpretazione. Per quanto sia surreale, l’immagine di quella persona trascende la definizione di se stesso e diviene incorporeo. Reciso dalla sua origine diventa idea – in questo caso linee e gradazioni. Questo può essere detto di qualunque forma di arte o di qualsivoglia mezzo espressivo che aspiri a definirsi tale (i.e. arte), ma in questo caso mi soffermerò sulla sua valenza in ambito fotografico.

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Ungheria, 2014: catene ai polsi dell’arte e dell’informazione.

© Viktória Árva-Tóth, née Hanis

Dal 15 marzo 2014 è illegale fotografare persone in Ungheria se non si ha il permesso di chi venga anche inavvertitamente ritratto. Le uniche eccezioni sono i personaggi pubblici, durante le sole manifestazioni pubbliche, e le folle.

Tale è il desiderio del codice civile ungherese, a cui non voglio imputare colpe dirette, così come non voglio dare a intendere che vi sia da parte mia alcuna avversione verso il popolo in sé; come se le scelte sociali, spesso figlie dell’amministrazione, ricadessero direttamente sui singoli cittadini, tarando la reputazione che si possa avere del loro buonsenso. Infatti questa legge è estremamente impopolare e gli stessi giudici ungheresi covano malcelati timori riguardo a come applicare una norma che, nel dettaglio, è estremamente vaga. Come si potrà discriminare fra un personaggio pubblico e uno privato? E fra il personaggio pubblico e quello privato che vivono allo stesso tempo in alcuni individui? Infine, come si potrà affermare con totale chiarezza cosa renda tale una manifestazione pubblica rispetto a quello che potrebbe essere considerato un momento privato in luogo pubblico? Il fatto che la definizione “folla” sia legalmente ridicola è pleonastico.

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