L’EQUILIBRIO NELLA FOTOGRAFIA.

Tutte le fotografie incluse in quest’articolo sono coperte da copyright da parte dei rispettivi autori.

Nelle poche occasioni in cui mi confronto con altre persone sul rapporto che ciascuno di noi ha con la fotografia, io mi scopro ogni volta essere saldamente ancorato all’associazione di tale mezzo espressivo agli esseri viventi. Per quanto la scelta dei possibili soggetti fotografici sia ampia, solitamente prediligo ritrarre situazioni in cui vi sia un elemento umano. Vengo poco attratto dai miei scatti in cui ve n’è carenza, ma non disprezzo quelli di altre persone che si allontanano da questa mia concezione della fotografia; posso anche esserne molto attratto. La macro-fotografia, così come quella astratta, quella panoramica e i molti altri tipi, è affascinante, ma non si confà alla mia indole: posso apprezzarla, ma non ne produco.

Ultimamente ho letto delle frasi che avevo evidenziato nel libro ‘Sulla Fotografia’ di Susan Sontag e una in particolare si è distinta fra le tante, in quanto affine a questa mia riflessione.

© Peter Hujar

Fotografare una persona equivale a violarla, vedendola come essa non può mai vedersi, avendone una conoscenza che essa non può mai avere; equivale a trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto.

Susan Sontag – Sulla fotografia [Piccola Biblioteca Einaudi]

Questa risuona come una sentenza e ne ha anche l’accezione, fosse anche solo per la scelta drammatica, e forse teatrale, dell’autrice, di utilizzare le parole violarla e posseduto. Non sono loro, però, ad affascinarmi, ma il fatto che condivido molto fortemente il sentore che una persona, in fotografia, posso essere conosciuta dall’autore della fotografia oltre il limite delle normali interazioni umane. La figura, una volta ritratta, viene influenzata dalla fantasia e dall’ottica di chi la osserva, e si eleva a oggetto di interpretazione. Per quanto sia surreale, l’immagine di quella persona trascende la definizione di se stesso e diviene incorporeo. Reciso dalla sua origine diventa idea – in questo caso linee e gradazioni. Questo può essere detto di qualunque forma di arte o di qualsivoglia mezzo espressivo che aspiri a definirsi tale (i.e. arte), ma in questo caso mi soffermerò sulla sua valenza in ambito fotografico.

Fotografi come Gordon Parks, Josef Koudelka, Steve McCurry, Daido Moriyama, Diane Arbus, Joel Meyerowitz e altri hanno incentrato il loro lavoro sul ritrarre persone, anche se in situazioni diverse e con approcci compositivi molto differenti. Gente come Phillip Jones Griffiths e Gordon Parks faceva lo stesso concentrandosi sul fatto che la fotografia potesse essere un mezzo di diffusione mediatica e di accrescimento della consapevolezza sociale. Come loro, Diane Arbus seguì le orme di Robert Frank (i.e. autore della raccolta ‘The Americans’) e del poliedrico Henri Cartier Bresson. Per quanto sia una semplificazione, si può dire che dal primo acquisì l’ambizione a raccontare il mondo, dal secondo il fatto di dare una forma adeguata alla propria voce: Frank viaggiò attraverso l’America, e non solo, per renderla più concreta nella mente dei suoi abitanti, mentre Bresson è noto come un fine e attento maestro della composizione, solito tramutare semplici scatti in esercizi di stile e di disciplina, in cui far sì che ciascun elemento nella foto non fosse involontario o indomato. Diane Arbus non fu la sola e unica a seguire tale iter, ma enunciò una frase emblematica, forse troppo ambiziosa e supponente, ma chiara nel determinare il comportamento e le finalità di un movimento artistico in quell’era.

I really believe there are things nobody would see if I don’t photograph them.

Diane Arbus

La fotografia si diffuse così tanto perché raccontava qualcosa di cui la gente non poteva avere un’esperienza personale nella vita di tutti i giorni. Si differenziò poi in fotografia artistica e amatoriale, con non poche problematiche di natura puramente semantica: non che vi sia un male, ma si diede via a nocive abitudini comportamentali, secondo cui il nuovo (e.g. pellicola a colore, digitale, fotocamere dei cellulari) non fosse carente solo dei mezzi, ma anche del diritto di potersi raffrontare con l’elevazione dei mezzi classici (e.g. pellicola monocromatica, medio-grande formato). Fortunatamente, con cadenza regolare, questi dibattiti vengono accantonati in quanto futili diverbi lontani dal vero fulcro tematico della fotografia: non conta con cosa scatti, ma cosa scatti e perché lo fai.

Conta cosa si prova, non cosa ti viene detto al riguardo.

Oggigiorno chiunque può scattare una foto, tornare a casa e postarla su internet nell’arco di minuti. Molte persone, in risposta a questo, suggeriscono una tecnica di restrizione personale che possa ricondurre a ritmi più lenti, caratteristici dell’era analogica: lasciar sì che passi del tempo (i.e. 6 mesi – 1 anno) fra lo scatto e l’editing/pubblicazione della foto. Lo scopo è quello di ridurre l’attaccamento emotivo del fotografo alla sua “creatura”; dopo mesi ci si può dimenticare del “volto” che la fotografia potesse avere, a maggior ragione se non la si ha guardata per lungo tempo. Si riscopre la foto e si sviluppa criticità artistica. Questa scelta è opinabile (e.g. io la condivido, ma non ho la pazienza per farlo; piuttosto riprendo foto vecchie di mesi e le elimino dalla cerchia di scatti scelti di cui vado fiero), ma ciò che mi interessa è il fatto che sia esemplificativa di quale sia il rapporto fra autore e opera, in questo caso nella fotografia: come i genitori non sempre sono obiettivi nei riguardi dei figli, così gli autori di una qualche forma espressiva devono accettare il fatto di non poter affermare con sicurezza di non essere eccessivamente accondiscendenti o distruttivi nei riguardi della loro creazione.

Questa incertezza cognitiva può divenire un solido equilibrio dinamico, a patto che si abbia coscienza del fatto che ogni fotografia sia soggetta ad una oggettivazione, ed una conseguente valutazione, a priori ed a posteriori. Più questi due momenti sono distinti (i.e. per il trascorrere del tempo o per uno sforzo auto-esplorativo), più si può essere oggettivi nei riguardi del proprio lavoro, come lo si è per quello degli altri quando si eliminano, difficilmente, invidia e ammirazione.

Due sono gli aspetti che compongono principalmente una fotografia e che sono soggetti ad una dicotomia priori-posteriori: composizione e contenuto. Entrambi possono essere egualmente immediati, a seconda della sensibilità e del gusto personale dell’osservatore. A mio parere la composizione è uno strumento che deve essere utilizzato per mettere in luce il contenuto della foto, ben più importante ed espressivo. Quella che nasce come una buona fotografia, a livello contenutistico, acquisisce più possibilità di stagliarsi fra le tante se facilmente leggibile. Lo stesso può essere detto della letteratura o di altre forme d’arte: cosa sarebbe accaduto se Hemingway avesse messo il suo grande realismo al servizio di parole confusionarie e frasi inarticolate?

Molti sono quindi i mezzi a disposizione del fotografo per mettere in luce il proprio operato. Alcuni semplici ed efficaci (e.g. regola dei terzi e figure-to-ground ratio), altri più complessi, ma ricompensati da un contrappasso positivo (e.g. la sezione aurea).

© Steve McCurry

Steve McCurry è noto per foto ricche di colori vividi, riconducibili all’immaginario di regioni lontane di un mondo inesplorato. Fotoreporter indomito con una passione per l’india e per una pellicola in particolare (i.e. Kodakchrome), McCurry ha prodotto fotografie per National Geographic per anni. Una di queste ritrae un adolescente di origine slave e ci fornisce esempio delle tre tecniche compositive precedentemente elencate. Questa fotografia è un compendio di come elementi compositivi diversi possano operare in parallelo. La regola dei terzi (i.e. rule of thirds) detta che il decentramento del soggetto, a favore di una delle quattro linee che dividono l’immagine in nove riquadri di egual misura, può essere di ausilio nel rendere più equilibrata e ripartita una fotografia; il posizionamento di un occhio all’intersezione di due linee può risultare vincente in alcune inquadrature. Questa tecnica è fra le più comuni e, giustamente, è fra le più infrante, almeno in parte, in quanto è una semplificazione di un intricata rete di linee di forza che può svilupparsi una fotografia.

© Steve McCurry – La prima immagine da sinistra evidenzia la regola dei terzi, la seconda mostra una possibile applicazione della sezione aurea e lo sfondo della terza è stato scurito per enfatizzare l’efficacia di un buon figure-to-ground ratio.

La sezione aurea è sicuramente meno immediata e si basa su una figura geometrica (i.e. una spirale) frutto di un’applicazione della sequenza di Fibonacci. Questa può essere utilizzata per dare vita ad un movimento statico nell’immagine, il quale può essere più o meno ovvio, così come può essere integrato nella totalità dello scatto, o solo in una sua parte – come in questo caso. McCurry pone gli occhi del ragazzo vicini al terzo superiore e la linea ricurva del suo copricapo crea un accenno di sezione aurea che culmina nell’occhio destro del soggetto. L’ultima tecnica di facile individuazione in questa immagine è l’alto figure-to-ground ratio (i.e. letteralmente differenza fra soggetto e sfondo), il rapporto fra l’esposizione del soggetto e quella dello sfondo. Questa tecnica è, a mio parere, una delle più efficaci e potenti, in quanto può rendere l’identificazione del soggetto molto più piacevole e immediata.

Queste tecniche possono anche essere utilizzate in sincronia, caratteristica che contraddistingue il lavoro di Henri Cartier Bresson, il quale ha prodotto centinaia d’immagini che mirassero ad essere esercizi di composizione fini a sé stessi. Una foto che accomuna questa peculiarità tecnica con la registrazione di un contenuto altrettanto valido è quella in cui la seconda moglie di Bresson, Martine Franck, ritrasse una scala a chiocciola in muratura sul cui corrimano appaiono ininterrottamente teste infantili. Il suo scopo principale era quello di richiamare la struttura geometrica della chiocciola, rappresentata dal decorso della sezione aurea, incasellandone la principale linea di flessione nella suddivisione in terzi. Questo, infatti, è ciò che può colpire l’osservatore a livello superficiale, che egli sia conscio o ignaro dell’esistenza della sezione aurea e del suo peso nella composizione fotografica. Ciò che rende questa fotografia così piacevole da osservare è il fatto che vi sia l’apporto umano in esso, che vi siano i bambini. La ripetizione ritmica di visi, caratterizzati da espressioni dissimili fra loro, è stata una scelta azzeccata della fotografa per riempire il vuoto della scala in maniera non platealmente fasulla.

© Martine Franck – Le linee della sezione aurea e della regola dei terzi sono state evidenziate in questa foto: la prima segue l’andamento del principale elemento “narrativo” dell’immagine (i.e. la scala a chicciola), mentre la seconda evidenzia come la spirale della sezione aurea abbia una flessione in concomitanza con la linea di demarcazione dei terzi verticali sinistro e centrale.

Partendo da un elemento architettonico fotograficamente retto dalla sinergia di due dominanti compositive (i.e. regola dei terzi e sezione aurea), Franck intraprese il cammino di arricchimento della fotografia che pochi, al tempo, ritenevano sensato affrontare. Lei e il marito furono fra i primi a considerare la fotografia un mezzo espressivo. Vennero in seguito mosse loro molte critiche per il fatto che non tutti i loro scatti ritraessero fedelmente la realtà, ma situazioni immortalata ad hoc, ma ritengo che questa critica sia parzialmente anacronistica e antitetica dato che il fotogiornalismo non esisteva e non ve ne si dichiaravano allievi. Avanti negli anni, Bresson ammise di aver influito attivamente su ciò che accadeva nei suoi scatti; personalmente io ritengo che abbia fatto bene ad ammetterlo, in quanto nulla dice che la fotografia debba essere sempre reportage. Come se ogni romanzo dovesse solo essere narrazione biografica o storica.

Vi furono fotografi che riuscirono a permearsi di questa discriminazione fra fotografia di resoconto e di narrazione, fino a negarne la connotazione stessa “vocale”, rendendola muta e immediata; più primordiale e, secondo molti, meno resiliente al passare del tempo, ma non per questo meno efficace. Un esempio è Stray dog di Daido Moriyama.

© Daido Moriyama – Questa fotografia, molto semplice e immediata s’incentra sullo sguardo del cane, che è posto in giusta luce da due elementi compositivi: dal forte figure-to-ground ratio e dalla linea diagonale che viene intersecata da un segmento perpendicolare, al fine di donare peso alla sezione inferiore della fotografia e, in questo caso, al fine di “narrare” il movimento.

Il fotografo giapponese scattò questa fotografia in uno delle sue numerose passeggiate senza meta a Shinjuku. Egli stesso racconta di preferire le strade delle sue città a quelle di metropoli lontane ed esotiche, i vicoli angusti alle ampie strade luminose. Lì s’imbatte in un cane randagio, letteralmente stray dog, e lo immortalò prima che perdesse quella fittizia impressione di rancore. Moriyama scattò velocemente, d’istinto; fortuna e riflessi frutto di anni di esperienza (e) pratica l’hanno aiutato a donare alla fotografia una composizione che potesse darle la giusta voce. Il figure-to-ground ratio­ è subitamente efficace nel duplice ruolo di narrazione e acclamazione del sentimento che traspare dallo sguardo dell’animale. Inoltre Moriyama inserisce qualcosa di più tecnico: utilizza una linea diagonale per sezionare i pesi dell’immagine e bilancia la metà inferiore con un segmento perpendicolare. Corpo e testa reggono gli equilibri della fotografia e ravvivano l’apparenza di movimento.

Joel Meyerowitz faceva lo stesso nelle strade di molte città del mondo, scattando senza pensare, a volte alla guida della sua auto. Questo scatto risale al suo primo periodo, prima che si desse come linea guida quella di non fotografare centrando il soggetto, non perché fosse sempre concettualmente sbagliato, ma perché troppo facile e quindi non abbastanza impegnativo.

© Joel Meyerowitz – Questo scatto mostra l’uso di linee compositive diritte, curve e incasellanti, come si può notare per l’intelaiatura della vetrina, per l’ausilio di comunicazione che si sovrappone al viso del soggetto e per la cornice in alto.

Meyerowitz è fra i molti che pongono enfasi sul fatto che l’immediatezza di un mezzo possa nascondere la bellezza di alcuni suoi elementi, più in mostra se posti come elementi da scoprire. Egli è stato in visita a Milano alla fine di Ottobre (’13) e con sue parole ha raccontato come si annoverasse fra le persone che hanno bisogno di nuovi stimoli allo scadere di certi momenti della sua vita: ha viaggiato per il mondo, si è invaghito della fotografia in medio e grande formato, poi delle texture naturali e ha voluto dare voce alla memoria visiva dell’11 settembre.

Similmente a Moriyama (i.e. sono entrambi oltre la soglia dei settant’anni), entrambi hanno sempre bisogno di nuovi stimoli. Il giapponese li ha trovati nel rivedere il suo mondo abitato da genti e costumi diversi, l’americano ha voluto visitare tempi e luoghi in cui certi, anche deplorevoli, aspetti umani sono coriacei.

© Josef Koudelka – Nella fotografia domina una sola linea di forza, per nulla celata. La decorazione nello sfondo unisce i tre individui, ma ne evidenzia solo uno. Si può notare anche un leggero figure-to-ground ratio, ma non è la chiave di lettura principale della fotografia, solo un elemento di secondo piano.

Ai suoi inizi Meyerowitz pose enfasi su una composizione armonica, centralizzata e incasellata. Poche linee, ma vigorose. In alcuni casi, basta anche una sola linea, come ha saputo dimostrare Josef Koudelka, in molte fotografie del suo libro Gypsies (i.e. zingari, gitani). L’esempio migliore è lo scatto in cui due musicisti si fanno ritrarre davanti ad una parete in un interno: i decori guidano l’occhio dell’osservatore da una testa dei due adulti all’altra, e prosegue verso un bimbo in ombra. È lui il vero soggetto ed è difficile smettere di vederlo come tale, per quanto si osservino altri elementi nella fotografia. Egli riempie bene uno spazio vuoto, crea ritmo sincopato e dona mistero alla fotografia. Per quanto possa sembrare banale, la presenza del bambino, col suo sguardo, ai piedi di quella decorazione imprime questa immagine nella mente (e nel cuore). Il suo sguardo può annidarsi lì ove trova ristoro la sensibilità umana.

© Junku Nishimura – Il fotografo scatta con l’intento di cogliere un momento d’intimità, un abbraccio. Gli elementi compositivi hanno il ruolo di enfatizzare il messaggio. Qui possiamo riscontrare l’uso del figure-to-ground ratio e del triangolo, entrambi molto semplici e basati sul fatto che poche semplici linee possono essere sufficienti per dare supporto al messaggio visivo ritratto.

Una semplice armonia simile a quella riscontrata nello scatto di Joel Meyerowitz può essere riscontrata in uno scatto di Junku Nishimura, fotografo contemporaneo giapponese assurto all’olimpo dei miei prediletti negli ultimi sei mesi. La fotografia presa in esame è enigmatica e ho potuto assistere a più di una persona il cui momento di smarrimento è sfociato nel chiedersi cosa fosse ritratto nell’immagine. In The nostalgic, un uomo abbraccia una donna sulla cui veste vi è il disegno di un volto umano. Nishimura gestisce con maestria un’inquadratura in cui lo spiccato figure-to-ground ratio è una nota di fondo, in grado di contestualizzare ed enfatizzare la struttura triangolare che riprende le linee del corpo e dell’abbraccio, e che incasella il fulcro emotivo della fotografia – lo sguardo. Volendo essere poetici, si può dire che il fotografo vede oltre gli elementi compositivi più complessi a disposizione del fotografo e opta per il triangolo, la più solida e rigida struttura geometrica, elemento usato e mai abusato da tanti fotografi (e.g. Josef Koudelka). Esso, infatti, libera la fotografia dall’obbligo di sottomettersi ai confini dell’immagine, per potersi collocare a piacimento; inoltre esso può fluire attraverso un unico elemento (i.e. come in questo caso), oppure unirne di diversi (e.g. Koudelka ha ritratto scene in cui 3 persone, disposte spontaneamente o meno, formavano una struttura triangolare).

© Diane Arbus – A mediare la grandezza di questo scatto vi sono due triangoli fra loro quasi analoghi (dipende dalla resa grafica del triangolo interno) e la linea curva sullo sfondo che si innalza nella metà destra, quella più leggera, e che si appiattisce laddove vi è più “peso” visivo.

Il triangolo è stato utilizzato anche da Diane Arbus in una delle sue fotografie più emblematiche. Questo scatto è esempio di come una buona composizione possa aiutare, ma è il messaggio in sé a parlare, non il piedistallo su cui si pone l’oratore: dubito che qualcuno abbia memoria di questa fotografia per i suoi meriti compositivi. Ritengo piuttosto che la presenza del triangolo delimitato dai fasci di luci e ombra che, per mano del fogliame, hanno privato il terreno della monotonia monocromatica, e il suo (i.e. del triangolo) eco nel bambino, in particolare fra le mani e il busto, siano, insieme con la linea curva che governa il disequilibrio nello sfondo, gli attori che hanno potuto dare voce a questo racconto. Diane Arbus, infatti, confermò e chiari ulteriormente quello che si poteva intuire dagli scatti attigui a questo sul negativo: ella incontrò al parco un bambino che impugnava delle bombe a mano giocattolo e fra uno scatto e l’altro gli disse di provare a immaginare che le bombe fossero vere. La natura spontanea e incontaminata del bambino ci ha regalato una vivida immagine di quello che lui riteneva fosse il terrore, in una foto atipica che racconta quel qualcosa che altrimenti sarebbe passato inosservato, di cui Diane Arbus accennava nella frase precedentemente citata.

© Phillip Jones Griffiths – Questa immagine nuovamente propone un figure-to-ground ratio che mette in luce il triangolo formato da mano, gomito e spalla della persona ritratta. Il lato lungo di questo triangolo si pone sulla linea verticale sinistra della regola dei terzi, collocando il triangolo nel riquadro in relazione alla normale divisione degli spazi.

Il triangolo, quindi, è fra le strutture compositive di mia predilezione, secondo solo ad un uso sapiente del figure-to-ground ratio. Il fatto che tale struttura geometrica possa essere scorredata dalla suddivisione classica degli spazi dell’inquadratura è un suo punto di forza, ma vi sono esempi di come alcuni fotografi abbiano intrecciato questi aspetti, allontanandosi dalla semplicità di poche linee a favore di un arricchimento compositivo. Phillip Jones Griffiths ha ritratto un ferito di guerra durante i suoi viaggi nel sud-est asiatico. Il graduale intervallarsi di tonalità chiare e scure della figura in primo piano fa sì che vi sia un susseguirsi di diversi figure-to-ground ratios con uno sfondo omogeneo. Mano, gomito e spalle formano un triangolo molto solido il cui lato più lungo (i.e. l’avambraccio, fra mano e gomito) si pone esattamente su una delle linee della regola dei terzi.

Le regole devono essere “prese di petto”, con l’intento di stravolgerle o renderle più forti. Questo vale nella fotografia come in molti altri ambiti artistici, fintanto che esse non siano prese di mira per facilitarne il confronto, ma per renderlo più stimolante.

Poche, forti linee di forza sono il corrispettivo grafico-compositivo di una forte voce singola; tanti elementi strutturali fra loro equilibratamente interconnessi divengono un coro, la cui complessità è ricchezza. L’armonia fra le molteplici voci è necessaria ed impedisce che una tale moltitudine porti unicamente ad una composizione caotica.

Si deve però chiarire che se la complessità è ricchezza, la semplicità di pochi elementi è immediatezza. Tranne che in pochi casi, la presenza di molti elementi è frutto di ricercatezza – anche postuma in certi casi. Le fotografie in cui invece un elemento solo media il messaggio del fotografo trascendono la necessità di individuare “altro” nello scatto.

© Gordon Parks

La produzione artistica di Gordon Parks ha sempre oscillato fra queste due macro-tipologie compositive e il ritratto scattato al funerale di Arturo Toscanini ne è un esempio.

Questa fotografia fu probabilmente scattata in maniera non ufficiale, ma se anche non fosse stato così, la composizione dello scatto è stata impostata per farlo apparire fugace e furtivo. Parks ha voluto rendere rispettoso un comportamento socialmente irrispettoso. Questo scatto va immaginato esposto su una parete intera; vi ci si deve sentire immersi, avvolti nel panno di raso e pervasi dalla solennità che è denota l’intera scena, secondo le intenzioni del fotografo.

© Gordon Parks – In questa fotografia, il triangolo circonda il cuscino e la testa del soggetto. Il ruolo del figure-to-ground ratio è limitato nel quadrante destro in basso. Vi sono due linee perpendicolari alla diagonale (i.e. in questo caso il cateto lungo del triangolo): il cateto corto e la linea che dalla parte in ombra si alza verso il coperchio della bara, dove vi è una ripetizione di linee fra loro parallele (i.e. i drappi). Il soggetto è stato inoltre inquadrato anche secondo la regola dei terzi.

Il principale elemento compositivo è il triangolo rettangolo che racchiude la figura di Toscanini e il cuscino su cui la sua testa è posata. In questa fotografia il figure-to-ground ratio assume nuove sembianze  e diviene mezzo  d’isolamento non solo visivo,  ma anche narrativo,  in quanto sembra attrarre la testa, lì dove il corpo riposa. Vi è una continua ripetizione di linee fra loro parallele, motivo perlopiù introdotto dalla ripetizione e dalla ritmicità dei drappeggi della bara. La concomitanza di sittanti elementi compositivi, per me, è intenzionale, in quanto parte del messaggio che il fotografo voleva trasmettere. In questa fotografia si possono notare alcuni strumenti compositivi che spesso passano inosservati, quale il fatto di includere o escludere determinati elementi dall’inquadratura (i.e. in inglese framing in/out): Parks ha volutamente voluto includere solo una parte del corpo di Toscanini, seguendo la regola dei terzi a supporto di questa scelta, per poter decidere quale tono dare alla fotografia. Questo scatto, inoltre, contiene molte linee di forza che, nonostante siano state raffigurate come linee diritte, sono curve, in quanto in natura non vi sono quasi per nulla linee davvero tali. Il fotografo sembra voler immergere il soggetto nelle curve; una lettura poetica della fotografia potrebbe vedervi un grembo. Infine manca un elemento molto forte è immediato, più espressivo che compositivo, che vi è nelle altre foto: il contatto visivo (i.e. in inglese eye-contact), il quale viene utilizzato per mettere in evidenza l’espressività del soggetto e per dargli voce (e.g. gli scatti di Steve McCurry e di Josef Koudelka, in cui il giovane slavo e il bambino nell’angolo trafiggono l’osservatore e ne attraggono l’attenzione). La scelta di eliminare questo elemento, può essere altrettanto significativa (e.g. lo scatto di Joel Meyerowitz in cui il viso dell’operatrice di cassa del cinema è eclissato dall’elemento circolare): Parks non ha molta scelta, non può toccare il corpo di Toscanini, ma la mancanza di contatto visivo ci dice che sta dormendo, in un qualche modo e in una qualche chiave di lettura.

Quest’ultima fotografia ci è stata d’esempio anche per sottolineare come, spesso, nel momento in cui la lettura di una fotografia diventa complessa, si incappi in interpretazioni postume, non sempre corrispondenti all’intenzione dell’autore nel momento dello scatto. Volendo fare un passo in più, si può entrare in un territorio d’incertezza, nel quale ci si chiede quanta sia interpretazione postuma personale, e quanta lo sia del fotografo che, nella selezione delle fotografie, ha scelto quella in cui ha avuto modo, man mano, di leggere sempre più elementi.

© Hokusai

Tutto quello che è stato detto finora è valido anche per le arti classiche come la pittura. Un esempio è questa stampa di Hokusai nella quale vi sono due diagonali, parallele fra loro, e un triangolo che s’incunea agilmente nella sezione inferiore dell’opera, riempiendone lo spazio con equilibrio. Tutte le linee tendono verso l’alto: dalla banale montagna che s’innalza, al fumo che danza verso la quota, fino allo sforzo degli uomini, indefessi nel loro lavoro.

Suggerisco caldamente di approfondire questi argomenti sul blog di Eric Kim, il quale ultimamente ha pubblicato dei post che trattano dei vari livelli di composizione.

Suggerisco anche il video di un seminario di Adam Marelli sul rapporto fra fotografia e arti classiche, nell’ambito della composizione.

Suggerisco infine, a me stesso, di ribadire che la composizione è asservita al contenuto, che tutti questi link sono da leggere con occhio critico, che ogni linea tracciata da me sulle foto dei grandi autori qui citati è frutto della mia interpretazione personale. Insisto nel voler minare l’affidabilità delle mie parole e nel far sì che l’unico concetto che traspaia sia che, per me, la fotografia è una fonte di soddisfazioni personali e di autocompiacimento. È uno dei tanti modi in cui l’egotismo può divenire terapeutico e trascendere dall’accezione negativa che lo definisce nel più dei casi.

La fotografia perdura fra le passioni che hanno contraddistinto questi ultimi miei anni ed è puro equilibrio fra il momento fugace dello scatto (i.e. la composizione a priori e l’accenno contenutistico) e l’immodesto rimirare del risultato finale (i.e. la composizione a posteriori e il disvelamento di un sentimento celato che possa applicarsi al contenuto).

È memoria muscolare e aggetto viscerale.

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